La Parola di Dio ci viene donata anche per insegnarci a vivere da figli e, in quanto figli, imparare a interpretare la nostra storia – personale e comunitaria – alla luce del pensiero del Padre. Dio, infatti, non è estraneo alla nostra esistenza e alle vicende che la attraversano e fa sentire la sua voce per aiutarci a correggere lo sguardo e dilatare gli orizzonti. “La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici”, recita il salmo 118 e forse mai come in questo periodo abbiamo bisogno di udire una voce capace di rischiarare il nostro cammino e infonderci sapienza. Chiediamoci allora che cosa ci comunica il testo del vangelo di Matteo, che la liturgia della trasfigurazione ci propone quest’anno, in merito a quanto abbiamo vissuto in questi mesi e tuttora stiamo vivendo.
Tutti abbiamo ancora negli occhi immagini angoscianti: come potremmo dimenticare le fotografie dell’interno della cattedrale di Bergamo con le bare assiepate una accanto all’altra o i camion dell’esercito carichi di feretri? Tutti conserviamo nel cuore il desolante ricordo delle morti solitarie, degli abbracci non dati, della vicinanza negata ai parenti anche nel corso dell’ultima agonia. E come non pensare a chi ancora porta il fardello di opprimenti sensi di colpa, per essersi sentito causa di malattia e di morte, e il peso dell’angoscia per il mancato addio?
Nei giorni più drammatici, quando il covid falciava innumerevoli vittime, sui nostri balconi sono apparsi rassicuranti cartelloni con la scritta: “Tutto andrà bene”. Qualcuno ha voluto associare questa affermazione senz’altro legittima, perché volta a incoraggiare e infondere speranza, alle parole della rivelazione affidata da Gesù alla mistica medievale Giuliana di Norwich e riportata anche in una stupenda poesia di Th. S. Eliot: “tutto sarà bene e ogni sorta di cose sarà bene”. In realtà, guardando ai mesi passati ma anche alle ansie e trepidazioni del presente, non possiamo certo affermare che tutto è andato bene; dobbiamo dunque dubitare della promessa fatta da Gesù alla beata Giuliana? Il problema si colloca a un livello diverso: in questione, infatti, non è la promessa, ma l’aver associato due frasi di contenuto completamente diverso in base a una semplice assonanza. La rivelazione fatta a Giuliana – diversamente dalle parole scritte sui nostri balconi – non riguarda il presente o il futuro immediato, ma un altro tipo di futuro, quello relativo al compimento del tempo che tuttavia, pur collocandosi sul confine dell’eternità, illumina e trasfigura questi nostri giorni e questa nostra storia.
Ecco allora che il testo di Matteo si staglia sul nostro orizzonte come parola capace di attribuire un senso, di curare le lacerazioni dell’anima, di trasformare questo tempo sospeso nel tempo dell’attesa gioiosa di un compimento. Gesù invita con sé sul monte di luce gli stessi apostoli che nel giardino del Getsemani saranno testimoni della sua angoscia, del trasudare sangue e, ai piedi della croce o da lontano, vedranno il suo corpo dilaniato dalla sofferenza e dalla morte. Un’esperienza drammatica, capace di evocare molti vissuti attuali: l’angoscia della fine, l’insanabile senso di colpa, l’oscurità della disperazione, la mancata vicinanza, l’impossibilità di rimediare, di consolare e tante altre sfumature della desolazione che ha trovato spazio nel cuore di molti. Consapevole del destino drammatico che lo attendeva, Gesù ha offerto ai suoi un frammento di cielo, la possibilità di gustare il sapore di Dio nella fiducia che quella visione potesse ancora riempire i loro occhi e colmarli di speranza al momento della sua agonia e della morte. Ed è proprio il termine speranza che emerge in modo più chiaro e consolante quest’anno dalla contemplazione del mistero della trasfigurazione. Una speranza che sul Tabor Gesù ha consegnato ai tre discepoli come stella capace di illuminare l’interiorità dei loro cuori nel momento della delusione più cocente e del dramma più intenso. Noi non sappiamo se, nei giorni tragici della passione del Cristo, Pietro, Giacomo e Giovanni hanno per qualche istante attinto a questo ricordo per rinsaldare la loro fede e illuminare il loro vissuto. La Scrittura, però, ci rivela che nel tempo post-pasquale, quando il giorno è di nuovo spuntato dentro di lui, il ricordo della voce del Padre e dell’onore e gloria ricevuti dal Figlio è diventato per Pietro testimonianza luminosa della stella del mattino sorta nel suo cuore e in quello di chi crede alla Parola (cf 2Pt 1,16-19). L’apostolo ci conferma, quindi, che questa stessa luce taborica può splendere anche nella nostra esistenza come seme di speranza, di compimento, di senso. La Trasfigurazione, quindi, si presenta quest’anno al nostro sguardo come raffigurazione quasi tangibile della realizzazione di tutte le attese che sembravano falciate dal flagello del covid. Il compimento dell’umano, infatti, non consiste nel recupero della salute e nemmeno nel ritorno a un passato abitato dalla tranquillità e dal benessere – supposto sia così per tutti. Esso sta invece in quanto hanno contemplato i discepoli sul Tabor: in un corpo che non conosce i limiti della materia, del tempo e dello spazio; nel superamento di ogni vulnerabilità e finitezza, nella sconfitta definitiva del male e della morte, nell’eternità luminosa in cui comprenderemo finalmente che cosa significa davvero essere figli di Dio.
Un grande filosofo del secolo scorso, Gabriel Marcel, parlava della speranza come della “memoria del futuro”. Lo stesso possiamo affermare del mistero della trasfigurazione: esso ci rivela che la nostra esistenza e l’umanità intera non stanno sospese su un possibile baratro, ma sono semplicemente in attesa della completa realizzazione di ogni desiderio di vita, di pienezza, di bene che il nostro sguardo già intravede e a cui il nostro cuore può anelare.
Un bel verso della poetessa americana Emily Dickinson suona così: “io abito la possibilità”. Ebbene, il mistero della trasfigurazione ci invita ad andare oltre la ricerca di certezze immediate, frutto di statistiche e di calcoli delle probabilità, per abitare possibilità che il nostro cuore forse non osa nemmeno pensare e desiderare. In primo luogo la possibilità di dare completezza a tutto ciò che qui ci è sembrato incompiuto. Gli abbracci non dati, gli addii impediti a causa del contagio, i legami interrotti in modo brusco e parziale non costituiscono l’ultima parola del nostro mondo relazionale; essi sono semplicemente dilazionati a un tempo futuro, in cui potranno trovare compimento. I corpi dei morti, avvolti nella plastica e cosparsi di disinfettante, riacquisteranno vita, dignità e splendore nella Gerusalemme celeste, quando tutti potremo partecipare all’esistenza gloriosa del Risorto. Non si tratta di sogni visionari, ma di promesse consegnate da Gesù ai suoi; non dice, forse, il Vangelo di Matteo che “i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43)?
Nello stesso modo il libro dell’Apocalisse ci assicura che Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi (cf Ap 21,4). Il nostro primo incontro diretto con Lui sarà, quindi, forse molto diverso da come siamo soliti immaginarlo: Egli non si limiterà a rivelarci la verità di noi stessi, a far luce sulle nostre fragilità e peccati; come suggerisce il testo dell’Apocalisse, sarà anche il nostro grande consolatore, pronto a tergere dai nostri occhi tutte le lacrime per poi – mi piace pensarlo, anche se la Scrittura non lo dice – trasformarle nelle pietre preziose che ornano la Gerusalemme del cielo.
Questa speranza che sgorga limpida dal mistero della trasfigurazione non è un semplice rattoppo consolatorio, un tentativo di medicare ferite ancora sanguinanti; non è nemmeno un invito a concentrare lo sguardo sull’oltre dell’eternità, dimenticando il presente. Essa è piuttosto una realtà dinamica che colora non solo il futuro ma anche la vita di oggi e ci interpella in merito alla nostra capacità di fare fiducia a Dio, di credere e aderire alla sua Parola, anche quando essa sembra superare di gran lunga i nostri desideri e i nostri sogni più folli. Questa speranza ci fa abitare non solo la possibilità, divenuta certezza, di un futuro in cui non conosceremo più il limite del peccato e della morte, ma anche quella di un presente diverso per tutti noi. L’esperienza del covid non è stata solo la manifestazione di un dramma, ma nella dedizione, nella solidarietà, nella creatività, nella generosità di molti si è anche rivelata la presenza dei germi di un mondo diverso, dei semi del regno che già abitano la nostra storia. La speranza ci invita, allora, a coniugare in noi l’attenzione al cielo e alla terra, l’anelito di infinito e l’adesione al reale. Essa ci sprona a conservare e rafforzare quel duplice sguardo in cui la tensione nei confronti della dimensione escatologica della nostra vita si accompagna alla dedizione verso questo mondo che, nella sua fragilità e nella sua grandezza, tanto desideriamo servire. Il covid non è stato un castigo di Dio, come alcuni hanno affermato; in questa esperienza possiamo, invece, cogliere il suo invito a pensare un mondo nuovo: un mondo abitato dalla possibilità della giustizia, della fraternità, della cura della casa comune, ma anche da un senso che trascende e completa tutte queste realtà terrene e la cui pienezza si realizza solo nel Cristo trasfigurato e risorto.
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